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Hilde Domin

domenica 25 febbraio 2024

Mario Brunello suona per i larici: una richiesta di pietà

 https://www.lastampa.it/cronaca/2024/02/23/video/mario_brunello_suona_il_violoncello_perche_una_pista_da_bob_per_cortina_prenda_il_posto_di_un_bosco_di_larici_il_taglio_deg-14095086/

lunedì 27 aprile 2020

Ettore Perrella, maestro indiretto

La responsabilità dell'inconscio (giovedì 15 novembre ore 15.30) aula DEA cubo 17/B IV piano




Perrelliani all’Unical
Ettore Perrella,
maestro indiretto 

di Massimo Celani

La domanda vien da sé: cos'è un maestro indiretto?
Un maestro indiretto non è il tuo maestro, è quello che insegna nell’altra classe. Il suo insegnamento ti arriva da un altrove.
Una maestra indiretta non ti è davanti, ma ogni tanto ti arriva la sua voce. Tu fai letteratura e senti che di là stanno parlando di storia, tu fai storia e senti che di là fanno disegno. Tu fai disegno e senti che di là scoppia la musica. Poi, mentre studi, scopri che vicino a dove sei c’è un cinema all’aperto, lo capisci perché ti arrivano le voci. Tu ascolti e completi la scena con le immagini invisibili suscitate dalle voci: le scrivi! Sei una ragazzina e ti domandi: allora le immagini possono essere scritte? Non lo sai ... ma chiudi il libro, e vai al cinema. Entri e scopri che si tratta d’un film di Godard. Guardi il film aspirando la prima sigaretta, e quando esci ti senti diversa, saltelli e saluti in cuor tuo il signor Godard. Buongiorno signor Godard! Ti sembra di conoscerlo, sì, lo saluti come se fosse un tuo maestro, uno di quelli indiretti. Il bello d’un maestro indiretto è che non sa di esserlo e non ti giudica[1].

Egli infatti ha avuto la fortuna di non avere alle calcagna la muta universitaria. [2]



Perrella è per me un maestro indiretto. Non l’ho mai conosciuto – come suol dirsi – di persona ma ne sbircio l’insegnamento da una quarantina di anni. Questa idea di stare a origliare, di non essere esposti direttamente ma di registrare nel dipoi che voci e ragionamenti che hai intrasentito distrattamente, come dietro a un velo, come suoni che provenivano da un’altra stanza, sono andati a segno, è piuttosto pitagorica. Buongiorno signor Perrella! Credo di essermi imbattuto in un suo scritto, per la prima volta, nel 1976 [3] Poi nel 1978[4]. Oppure poco prima, una decina di pagine nel collettaneo “Associazioni psicanalitiche e formazione degli psicanalisti” [5]Erano anni in cui Perrella rimase impigliato negli ingranaggi di quella macchina buffa chiamata “Spirali”. Coinvolgimento minimo: una recensione al libro di Achille Bonito Oliva. [6] L’anno appresso usciva per Sugarco, Dittico: Pavese e Pasolini

Ma, a parte il coinvolgimento nel collettivo “Semiotica e psicanalisi” e nella rivista Vel, precursore di Spirali, feci amicizia con Perrella grazie a quella meravigliosa iniziativa editoriale di “In forma di parole”. Editoria minore, solo per il formato, curatissima, coi testi a fronte e le note dei traduttori, e dunque maggiore. Tanto erano pieni di grazia e a corpo piccolissimo, tascabili, anzi “manuali”, nel senso che ti stavano in mano, in un patto tra scrittori, traduttori e lettori per il quale non si dovrebbe smettere di ringraziare Gianni Scalia e Marco Belpoliti.
Perrella (ma sarei tentato di appellarlo Perelà, come il “sapiente, superiore, eccezionale” compilatore del codice palazzeschiano) ha rappresentato a lungo e a distanza una doppia iscrizione in questi due microsistemi in ebollizione: da un lato la tradizione socialista volitiva, dei De Michelis e di Marsilio, di Massimo Pini e Piero Sugar, dall’altra la gentilezza, il tatto e la delicatezza di una tensione verso la poesia. Ecco dunque “Iside, Osiride e l’uomo senza qualità”, un breve saggio su alcune liriche di Robert Musil tradotte da Perrella[7]. In un numero memorabile che contiene anche Lituraterra di Jacques Lacan e L’immagine di Roland Barthes.
L’anno appresso è la volta di Eros, Charis, Aidòs, venti paginette dedicate al “valore iniziatico e quindi pedagogico dell’eros della Grecia”[8]. Non a caso qualche anno dopo arrivarono, sempre per i tipi elitropici, i Sonetti di Shakespeare, con traduzione, introduzione e commento di Perrella.
Ricordo ancora oggi la festa per quando il portalettere mi consegnava il piego di libri per conto di “Il catalogo”, una specie di Amazon Prime dell’epoca, solo più raffinato. Tool e Brand extension di “In forma di parole”- come si direbbe oggi – piattaforma per il collegamento di amici/utenti, logofili più che filologi.



Posso dire che con Perrella, senza averlo mai visto in faccia, siamo amici da 40 anni all'incirca. Poco importa se forse ci siamo pure sfiorati nel 1980 a Milano, al palazzo delle Stelline, per un convegno spiralesco (internazionale ma, per fortuna, ancora non planetario) su “L’inconscio”. E’ l’idea del corteo degli amici-testi, di vicini di libro, come fossero ombrelloni, lanciata da Roland Barthes nel 1977 a Cerisy e – a seguire –da Gianni Scalia, vale a dire da chi metteva a disposizione in traduzione italiana (realizzata da Anna Rocchi Pullberg) quel breve testo estemporaneo in cui si glissava dalla sospensione del giudizio all’astensione dalle immagini.
Certo che in quello sfiorarsi a Milano dovevo essere piuttosto distratto, forse perché pendevo dalle labbra di Jean Oury, tra i pochi coraggiosi che si cimentava con gli psicotici. La mia breve pratica nelle istituzioni, tra un CIM e l’altro, mi avevano già condotto da Solomon Resnik, per un po’ al “Gemelli” da Pietro Bria, da Ugo Amati (il tempo di un bagno a mare e di portare all'Accademia Cosentina un po’ di Voci del Santa Maria della Pietà) e per molti anni da Olga Pozzi. Insomma cercavo roba tosta, inscalfibili, gente quadrata, tetragona a ogni sorte e Perelà mi sembrò più serio e meno mondano rispetto agli altri spiraliformi, ma ingenuamente cercavo un lampo, un elettrochoc formativo, un Lacan. Me lo richiedeva l’amico Santelli, al CIM di Cosenza, che mi trascriveva ciò che gli suggerivano le lampadine. Altro che “macchina telepatica” e signore dai cognomi altisonanti, io non sapevo cosa farci, avevo bisogno di un training veloce e intensivo dans les Cévennes, possibilmente con Fernand Deligny. Non feci in tempo a mettere in piedi una rete e l’amico psicotico se ne andò in bicicletta, investito da un’automobile.
Poi venne “il tempo etico” e la mia percezione cambiò definitivamente. Sarebbe da stupidi tesserne le lodi. Mi limiterò a mostrare in che condizioni è il suo libro fondamentale. Sottolineato, evidenziato, schedato, tormentato, interrogato, torturato. Sporcato fino all’inverosimile.



Da copywiter mi occupavo di “evocativo”. Se per il naming di un agriturismo vagavo tra il destriero, il ronzino, ‘u ciucciulo zoccolo duro e la metonimia de “le selle”, aprivo Il tempo etico e trovavo quanto segue:

“Dar voce, evocare, significa costituire nel campo dell’essente ciò che non vi era. La voce, in quanto appello all'essere, crea dal nulla quello che non era. La vocazione soggettiva dipende dunque dall'essere chiamato del soggetto a un suo posto per l’Altro. E’ questa la funzione essenziale di quell'Altro, primario per ogni soggetto, che chiamiamo con qualche approssimazione la madre. La madre è chi insegna a parlare, è chi chiama* ad essere un soggetto. Tale vocazione essenziale del soggetto è significata ed è rappresentata nell'assegnazione del nome, ma non coincide con essa. Il fatto di essere individuato da un nome proprio assegna al soggetto un posto nell'essente. Ma il nome proprio può solo rinviare a tale vocazione, non esprimerla. Il vero nome del soggetto non è il suo nome proprio, ma la vocazione stessa che lo ha esposto alla luce del simbolico, è l’attesa a riempire la quale esso è stato chiamato “[9]
Qui, caro Luca, il tuo pubblicitario di provincia (ricorderai che l’agenzia, non a caso, si chiamava lacosa) certo s’imbatte in un’altra dit-mension a te cara, il trovare senza cercare – e fin qui è Picasso – insomma la serendipity[10].

E ancora: “(…) il verbo *chiamare risulta ambiguo. Significa sia rivolgersi ad un soggetto, nella dimensione dell’evocazione e dell’appello, sia dare un nome. Queste due determinazioni finiscono col coincidere. Almeno nel senso che dare un nome a qualcosa significa evocarla”[11].



E ancora di recente, alle prese con lacosa delle ricerche di denominazione, per Mario Abis che cercava un brand per una nuova società di consulenza sportiva, eccomi di nuovo a pescare nella testualità perrelliana ciò che i pubblicitari con mesto tecnicismo definiscono reason why:
(...) "che cosa fece di Olimpia, questo pezzo di terra sperduto in una delle regioni più povere e remote della Grecia, la madre delle corone auree, signora della verità, come si esprime Pindaro? (…)
Agōn, prima di avere il senso che oggi diremmo sportivo, significava in greco semplicemente raccogliersi attorno ad un evento. L’agone può essere di navi, come nell’Iliade, o di uomini in una piazza o attorno ad una gara. Agōn è l’essere condotti, ma la radice verbale è la stessa dell’agere latino. L’agone dunque non è solo la gara, ma il raccoglimento grazie al quale un semplice accadere acquista la dignità di evento”. (pp.59-61)[12]


Doveva essere Agon sas, poi optammo per un’altra denominazione più calzante. Ma ne riporto gli aneddoti per via dell’uso – come dire – ripetutamente extra-psicanalitico di una posizione e di una rilettura kantiana che ben presto mi apparve monumentale.
Dunque potrei definirmi un copywriter perrelliano. E se fossi psicanalista userei lo stesso aggettivo.


La questione è nota: instaurare un bel “noi” al posto dell’io (principe della schifezza pronominale), in cambio del “perfezionarsi dell’ubbidienza” di cui scriveva Lacan in “Scilicet”. Così può accadere che nell’ambiente universitario, quello storicamente più resistente all’apsicoanalisi (sic), incuranti dei vel e degli aut aut, siano diventati tutti, ma proprio tutti, lacaniani. Tutti presi nella fabbrica di inutili pubblicazioni (cfr. la lacaniana poubelle) a interrogarsi sul rapporto tra filosofia e psicanalisi[13]. Anche quando dovrebbe essere troppo facile raddoppiarne il gioco e la canzonatura[14]

Lacan, è noto, continuava a dirsi freudiano, non senza qualche ironica sottolineatura. Il senso era “affari vostri se volete dirvi lacaniani”. Potrò autorizzarmi a dire di essere un pubblicitario perrellianoPure con qualche elemento di verità che ho or ora mostrato, appuntando che grazie a quel testo, a quel tempo etico, a quella ragione freudiana mi destreggio un po' meglio. Perlomeno in uno scenario di provincia e in un orizzonte meridionale. Rileva Marco Focchi che “destreggiarsi (se debrouiller), non a caso è una delle ultime parole di Lacan, un’indicazione per tentare di uscire dall'incubo di un'esistenza senza speranza”. Perrella, molto meglio di Perelman, mi aiuta a decidere le parole giuste (per cosa?). A sbrogliare la matassa che da queste parti si usa chiamare mmuolicu.  In questi tempi salviniani, non di certo salvifici, ce n’è bisogno. 
O forse sarà meglio aumentare la dose del Brintellix?

Grazie dunque al prof. Luca Lupo, a cui dobbiamo l’invito di un comunque-maestro. In questa università che considero semi-mia, non fosse per altro che mi è cresciuta affianco, son contento se c’è una banda freudiana che, anche qualora dovesse riprenderlo alla sua maniera, insomma senza capirci niente, possa risultare attratta da un buon pascolo. [15]




[1] Ida Travi, “I maestri indiretti”, courtesy “Versante ripido” http://www.versanteripido.it/intervista-a-ida-travi/
[2] Jacques Lacan, “Prefazione a una tesi”, in Altri scritti, testi riuniti da Jacques_Alain Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di CiacciaEinaudi, 2013 (Editions du Seuil, 2001), pag.396

[3] “Citazione, tradizione, tradimento. Per una riconsiderazione psicanalitica del Manierismo”, in “Vel”, n.4, Droga e linguaggio, Marsilio, 1976.
[4] Perversione del diritto e stregoneria”, in Il politico e l’inconscio, a cura di V. Fainberg. R. Močnik e A. Verdiglione, Marsilio, 1978. Praticamente gli atti del convegno internazionale di Lubiana, tenutosi l’anno prima. Anno in cui, stesso editore e analogo coté pubblicava Il martello delle streghe di Institor e Sprenger.
[5] “Simbolismo e simbolico. Note sulla funzione dell’enigma e l’insegnamento della psicanalisi”, in “Vel”, n.5, Associazioni psicanalitiche e formazione degli psicanalisti, Marsilio, 1977
[6] “Lo strabismo di Apollo, ovvero dell’intellettuale come artista”, in”Vel” n.8, Dissidenza dell’inconscio e poteri, Marsilio, 1978
[7] “In forma di parole”, libro secondo, Elitropia Edizioni, Reggio Emilia, novembre 1980.
[8] “In forma di parole”, libro terzo, Elitropia Edizioni, Reggio Emilia, luglio 1981.
[9] Ettore Perrella, Il tempo etico (o la ragione freudiana), Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1986, p.220
[10] Luca Lupo, Filosofia della serendipity, Guida, Napoli, 2012
[11] Ettore Perrella, ibidem (ho rimaneggiato leggermente il passo).
[12] Ettore Perrella, “Agone”, in Il corpo o il senso, a cura di Mario Binasco, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1987
 [13] Così Lacan sfotteva Giacomo Contri a Milano il 30 marzo del 1974  « … qu’est-ce que la communion a à faire avec la libération ? … C’est peut-être une opposition, vous voulez peut-être dire : communion versus libération, à savoir : l’une ou l’autre, et en effet, si vous vous libérez, c’est forcément de la communion… de la communion des saints en tout cas… ». Lacan in Italia 1953-1978. Milano, La Salamandra, 1978. L’anno seguente, ero un liceale in visita all’Unical, in un precursore dell’Open day, quando l’università consisteva di pochi iscritti in poche aule del cosiddetto polifunzionale disegnato da Massimo Pica Ciamarra, mi capitò di seguire una conferenza di Giacomo B, Contri. Mi dissero che quel signore che acchiappava parole dall’alto, in un immane sforzo di traduzione, era il traduttore di uno psicanalista famoso di cui non ricordavo il nome (pur celandolo nel mio cognome). Inutile dire che non capii quasi niente, ma quell’esordio con la psicanalisi nell’Università mi mise di buon umore. Ne parlo altrove: Contri all'Unical
[14] Cosa che feci in anni a noi vicini con Di Ciaccia, a cui donai alcune tazze (mug) che celebravano la fatidica interrogazione sul connettivo logico. Di Ciaccia, non senza umorismo, mostrò di apprezzare.
[15] “Devo ammetterlo: in un momento difficile in cui disperavo dello psicoanalista ho ingenuamente riposto qualche speranza, non nel discorso universitario che non avevo ancora modo di circoscrivere, bensì in una specie di “opinione vera” che attribuivo al suo corpo (Hénaurme!, come avrebbe detto chi sappiamo).
Lacan si riferisce a Flaubert. Jacques Lacan, “Prefazione a una tesi”, in Altri scritti, op.cit, pag.395.  

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giovedì 27 giugno 2013

Passaggio di consegne

(Al Sindaco, all’assessore Geppino De Rose)

In relazione all’attività dell’assessorato alla formazione della coscienza civica, scuola, città a misura di bambino e cittadinanza attiva che ho guidato in questi due anni, mi sento in dovere di segnalarvi i progetti che ritengo sia opportuno portare avanti nel segno della continuità, come pure alcune criticità.

martedì 25 giugno 2013

Ciao

L'avventura dell'assessore Marina Machì termina qui.
Di seguito due letterine, la prima è dell'amico Paolo Guzzanti, la seconda di Massimo Celani (nella scomoda veste di marito dell'assessore)


Cara Marina,
sono molto contento di leggerti e più ancora di vederti a settembre all'Aria Rossa con Giosi Mancini e alcuni malnati-malcapitati che condivisero con me la cayenna folle del Giornale di Calabria nel biennio 1973-75, cioè prima che mi chiamasse Scalfari alla nascitura Repubblica. Naturalmente ti seguo attraverso gli intensi e appassionati racconti di tuo padre e ho visto la foto della tua fantastica bimba. 
Hai fatto e stai facendo un gran lavoro e capisco quello che stai passando con la politica partitocratica quando prevale sulla politica per i cittadini.  (...)
Ho dato una scorsa ai tuoi link, molto belli e divertenti e didattici. L'idea di rieducare, o educare la Calabria è monumentale e assurda nella sua generosità, ma anche vittoriosa finché dura. Mi sembra che ti vogliano far fuori come elemento non omogeneo.
Bene, ora corro a portare a scuola i miei bambini piccoli (...)
Intanto un abbraccio e a prestissimo.
Paolo


venerdì 17 maggio 2013

Dimmi, triangoluzzo mio




La Città dei Ragazzi è una struttura di cui Cosenza può essere orgogliosa. Sono poche le città che possono vantare complessi edilizi dedicati ai bambini di questa grandezza ed importanza per lo svolgimento di intrattenimento, ma anche formative.
Però è anche un complesso edilizio che è stato progettato e costruito ormai molti anni fa e che oggi ha bisogno di essere migliorato. L’intenzione dell’attuale amministrazione è di avviare un processo di progettazione partecipata che sia attento alle esigenze degli operatori e dei fruitori, in modo tale che la città dei ragazzi sia sempre di più un luogo condiviso, funzionale ed efficiente.
I giorni 18 e 19 maggio si svolgeranno degli incontri con la cittadinanza per impostare le linee guida del progetto.